Cosa ci fa uno scrittore che è anche ceramista all’Ateneo Veneto ?
Ci fa una rifessione sul mondo della cultura, delle biblioteche e delle parole che si perdono o vengono cancellate ma che in qualche modo riescono a sopravvivere.
Lo so, detta cosi non è molto chiara.
Allora facciamo un passo indietro, anzi due.

Chi è lo scrittore?

Edmund de Waal, famoso per aver scritto un bellissimo romanzo dove la saga famigliare si intreccia con la storia d’oggetti d’arte. Se non avete capito di che libro sto parlando, il titolo è “Un’eredità di avorio e ambra” e vi dico solo leggetelo. Il sig. De Waal non nasce scrittore ma scultore, ceramista per la precisione. Per brevità artista insomma.

Che cos’è l’Ateneo Veneto?

Un’istituzione culturale che dal 1812 si impegna a divulgare la cultura (ne abbiamo tante) ma lo fa nelle sale della Scuola di San Fantin, proprio di fianco alla Fenice.
E per questo motivo, già gli occhi mi si fanno a cuore.

In questa sede il nostro artista mette al centro dell’aula una scatolona bianca con due entrate.
Mi piace il contrasto stridente che si crea tra l’opulenza della decorazione tardo rinascimentale veneziana e l’assoluta semplicità della scatolona, aperta sul soffitto cosicchè il dialogo con le tele di Jacopo Palme il Giovane continui in modo fluido.
Sulle pareti della scatolona ci sono scarabocchi, liste scritte a mano di luoghi. Sono i nomi delle biblioteche andate perdute o distrutte, da quella che nel tempo si è vestita di un’aura mitica come quella di Alessandria d’Egitto a quelle simbolo del sopruso di potere: Sarajevo e Mosul. Elenchi smozzicati, dove il tratto è sbavato rendendoli illeggibili. Solo i frammenti si salvano.

All’interno della scatolona, invece, nel più candido nitore, vetrine e libri si alternano a ritmo aulico, lento ma deciso, che vi rimette in pace con voi stessi.
I libri sono 2000 e provengono da oltre 50 paesi per rappresentare tutti – non proprio tutti, anzi se vi viene in mente qualcuno, potete segnalarlo voi stessi- gli autori che sono stati esiliati, che sono stati allontanati o hanno dovuto lasciare la propria casa ma le cui voci, dall’esilio, ancora più forti, sono tornate. Un coro ideale, da Ovidio ad Andrè Aciman, dall’antichità al giorno d’oggi.

Le vetrine contengono opere di De Waal, in materiali diversissimi come la porcellana, il legno, il marmo, l’alabastro. Il colpo d’occhio tuttavia le fa percepire come singole unità ripetute. Torna il bianco che abbaglia e che richiama nell’impostazione spaziale il Talmud Babilonese edito da Daniel Bomberg* all’inizio del 500, proprio qui a Venezia.

Libri antichi che si trasformano in opere d’arte che si prestano a una rielaborazione in un linguaggio diverso, che parlano con altre opere e che in qualche modo si ritrasformano in Libro.

Il fil rouge, sebbene possa apparire aggrovigliato, è un gioco che tiene il visitatore concentrato sulla riflessione più filosofica che letteraria o religiosa. Ma soprattutto permette una rifessione davvero globale nel tempo e nello spazio sulla parola scritta come simbolo.

Operazione complessa quella di De Waal quindi, semplice solo in apparenza.
Complessa anche perchè mette al centro il dialogo con il visitatore: su un tavolo, fogli e quaderni sono messi a disposizione di chi vuole raccontare la propria esperienza di esilio, la propria diaspora (non a caso l’altra installazione si trova a il Ghetto Novo).

L’opera si arricchisce così di un collettivo di storie che proprio nel loro essere comuni e diverse si ritrovano a creare uno sostrato di infinita ricchezza.